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Centenario della nascita di Wladimiro Tulli - Musei Macerata

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Alla riscoperta di Tulli, l’ultimo dei futuristi

Filippo Tommaso Marinetti lo lanciò aprendogli nel 1943 le porte della IV Quadriennale, il grande Ungaretti, incantato dalle sue tele, gli dedicava versi, Alberto Burri e Bruno Munari, che gli erano amici, ne apprezzavano la poetica e i sogni. A cento anni dalla nascita e quasi vent’anni dalla morte, una serie di mostre, da Recanati a Macerata e Civitanova Marche, rendono omaggio nei suoi luoghi più amati, alla meraviglia delle forme e al fuoco d’artificio dei colori di Wladimiro Tulli (1922-2003), pittore poetico e visionario formato alla scuola del futurismo, ultimo esponente di un gruppo di grandi talenti marchigiani, che annoverava tra le sue fila figure come Sante Monachesi, Umberto Peschi, Prampolini e Bruno Tano.

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Una celebrazione corale partita qualche settimana fa proprio dalla città di Leopardi, dove il museo civico ha riproposto, con una selezione di 30 opere, un’assaggio di quella che fu “Tulli per Giacomo” la grande esposizione che nel 1997 il pittore maceratese dedicò al poeta, cui era legatissimo.

Mentre dal 1 aprile lo sguardo si sposta a Macerata, città capofila del progetto dove a Palazzo Ricci fondazione Carima, si apre “Futuro anteriore”, una selezione di opere dal futurismo agli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, e dal 14 aprile, a Palazzo Buonaccorsi si apre l’antologica “Vitalismi”. Un cerchio che si chiuderà poi a Civitanova con “Wladimiro Tulli, cavalcare i sogni” , dedicato alle grandi opere del maestro, che troveranno spazio nell’Auditorium di Sant’Agostino.

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Di luogo in luogo, ogni volta con un approfondimento diverso, come un viaggio alla scoperta e nell’insieme di riscoperta di un’artista che dagli esordi nel futurismo degli anni Trenta non si è mai fermato, aprendosi all’Europa, al “cubismo sintetico di Picasso ai ritmi composti di Braque, ai colori solari della pittura di Matisse” come ricorda una delle curatrici Paola Ballesi, frequentando i movimenti astratti, concreti, spaziali e informali, confrontandosi con Miró, Klee, Kandinsky, appassionandosi, dalla fine degli anni Settanta, al mondo dell’arte americano. Ma che pure – fatta eccezione forse solo per un primo periodo di formazione nella Roma delle avanguardie- è rimasto sempre ancorato fino all’ultimo ai luoghi delle sue Marche, come al sentimento per l’amatissima moglie Eugenia. “Fantasia indomita, spontaneità del colore e libere forme sono i tratti distintivi del suo lavoro”, scrive Ballesi nel testo critico che accompagna il poderoso catalogo pubblicato da Quodlibet.

Ed è proprio il colore, il guizzare fantastico delle sue forme astratte, sempre cariche di una vitalità giocosa, dirompente e nello stesso tempo raffinata, com’era poi nella realtà l’uomo Tulli per chi lo ha conosciuto (“La persona e l’artista erano fatti della stessa pasta” scrive di lui Giampiero Mughini) la costante di questo percorso denso di sorprese, di meraviglie e di avventure in oltre sessant’anni di produzione artistica.

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In catalogo c’è di tutto, dalle pitture degli esordi alle grandissime tele della maturità, passando per le sculture in ferro e le coloratissime ceramiche. Senza dimenticare i collages, la tecnica forse più amata dall’artista maceratese, che si divertiva a usare materiali di ogni tipo, dallo spago ai giornali fino alla tela dei materassi “dove nascono e vivono i sogni e si concludono gli amori”, come scrisse presentando la mostra per Giacomo. In pratica tante cose prese dalla realtà, scovate nell’uso quotidiano “e poi decontestualizzate”, spiega Nikla Cingolani, curatrice dell’esposizione recanatese, sempre con l’idea di “portare lo sguardo più in là, oltre l’ovvietà, oltre il consueto”.

Nel segno della curiosità, “come curioso era Leopardi”, e dello sguardo teso al futuro. Con i piccoli aeroplani, quelli del suo esordio futurista, che tornano e ritornano, anche nella maturità, anche nel gioco- omaggio al conterraneo Leopardi, segno di una leggerezza che non è mai superficialità, piuttosto “un planare sulle cose dall’alto”, come sottolinea ancora una volta Ballesi citando il Calvino delle Citta invisibili.

Ogni opera, anche questa è una costante, è accompagnata da un titolo che è in sé un’altra piccola opera d’arte, uno schizzo di poesia, un anelito di infinito per tornare a Leopardi. Racconto e paradigma di una vita animata fino all’ultimo da un’insaziabile carica immaginativa ed emotiva. E da quel desiderio inesausto, come scrisse una volta lui, di “volteggiare sull’orlo dell’infinito”.

Fonte: ansa.it